Catenaccio nel calcio: come è nato e come funziona questa tecnica

Il primo a introdurre l’idea tecnica di un modulo iper-speculativo fu un austriaco, Karl Rappan, all’inizio degli anni Trenta. Il Mago Helenio Herrera, con la Grande Inter, lo rese poi perfetto. Ecco come.

Catenaccio, storia di un’intuizione

Forse, più che chiamarlo modulo, bisognerebbe riferirsi al Catenaccio come a una vera e propria filosofia. Perché in fondo di questo stiamo parlando, di un sistema di gioco che, al di là delle posizioni in campo dei giocatori, si basa, sin dalle sue primissime apparizioni nel mondo del calcio, su un’idea irriducibile di solidarietà difensiva fra compagni di squadra.

Il nome che da sempre è associato a quello che è forse il sistema di gioco più noto dal mondo, il Catenaccio, è quello del Mago Helenio Herrera. L’allenatore argentino, da molti considerato uno dei più grandi tecnici nella storia del calcio, fu effettivamente colui che rese definitivamente vincente l’idea radicale alla base di questa struttura tattica, costruendo una squadra, la Grande Inter, che ancora oggi resta una delle formazioni più vincenti di sempre e che di quell’organizzazione in campo divenne un esempio indimenticabile.

Schema di calcio su una lavagna

La storia del catenaccio nel calcio

Eppure, non fu Herrera a inventare il Catenaccio, no. Nonostante il genio tattico dell’allenatore argentino fu decisivo per apportare alcuni accorgimenti che lo resero il sistema noto a tutti gli appassionati oggi, a partorire il concetto per cui se gli avversari non segnano, allora non possono vincere la partita, fu un allenatore austriaco, all’inizio degli anni Trenta: Karl Rappan.

Rappan fu un calciatore di buon livello, capace di raccogliere anche due presenze nella fortissima nazionale austriaca degli anni Venti. Dal 1931 al 1935 su allenatore-giocatore del Servette e cominciò a implementare un sistema di gioco che aveva visto, qualche anno prima, quando da giocatore del Rapid Vienna incontrò in amichevole, a Zurigo, gli svizzeri del Grasshoppers.

La squadra avversaria, teoricamente molto inferiore al Rapid, teneva davanti al portiere non un solo giocatore, come si usava all’epoca, ma due: il libero, piazzato pochi metri fuori dall’area di rigore, gestiva la fase difensiva, mentre il compagno si occupava della marcatura dell’attaccante centrale, lasciando dunque il centrocampista incontrista fuori da compiti statici.

Per Rappan fu una vera e propria illuminazione e non appena, nel 1931, prese le redini del Servette, da allenatore-giocatore, cominciò subito a sperimentare un sistema di gioco che partiva proprio da quell’idea di doppio difensore, un 2-3-5 che è poi passato alla storia come “Verrou”, la serratura, e grazie al quale le squadre di Rappan riuscivano a imbrigliare avversari sulla carta superiori.

Con il Grasshoppers, che lo mise sotto contratto come tecnico dopo averne osservato le capacità tattiche alla guida del Servette, Rappan vinse quattro campionati svizzeri e sei coppe nazionali in sette anni. Passò poi ad allenare la nazionale svizzera, con la quale, in tre periodi diversi, raggiunse risultati importanti, qualificandola ai mondiali di Francia 1938, Svizzera 1954 e Cile 1962, nonostante potesse contare su giocatori modesti.

La componente rivoluzionaria del sistema di Rappan, come dicevamo, era legata al doppio difensore, e si sviluppava in un sistema di gioco che vedeva un costante arretramento di ogni reparto, con i calciatori liberi da marcature a uomo e meccanismi complessivi che rendevano molto difficile, per le squadre avversarie, trovare spazi.

Il catenaccio-italiano, da Nereo Rocco ai nerazzurri

A introdurre il catenaccio in Italia ci pensò Nereo Rocco, un’icona assoluta del calcio italiano. Rocco utilizzò il sistema inventato da Rappan per portare la Triestina, che l’anno precedente era retrocessa da ultima in classifica e che si trovava in Serie A grazie a un pasticciato ripescaggio di natura patriottica, fino al secondo posto in classifica, lottando per il titolo con Milan, Torino e Juventus.

Riuscì a ripetersi, a metà anni Cinquanta, con il Padova, che prima salvò, in serie B, da una quasi certa retrocessione in C, e che poi portò in Serie A, dove, alla terza stagione in panchina, e alla prima nella massima serie, raggiunse, addirittura, il terzo posto. La leggenda del catenaccio, con le imprese di Nereo Rocco, aveva preso così forma in maniera ormai definitiva.

L’allenatore che però sancì in maniera indelebile il legame fra calcio italiano e catenaccio fu Helenio Herrera. Herrera arrivò all’Inter nel 1960, su espressa richiesta dell’allora presidente Angelo Moratti, che dopo averne ammirato le capacità tattiche quando era sulla panchina del Barcellona, durante un match di Coppa delle Fiere fra Inter e blaugrana, decide che l’argentino è l’uomo giusto per i nerazzurri: non si sbaglia.

Moratti dovette però essere molto paziente, visto che i primi due anni di quella che sarebbe poi diventata la “Grande Inter” con tre scudetti, due coppe dei campioni e due coppe intercontinentali, furono molto difficili. Nel 60-61, la squadra giocava infatti un calcio offensivo, tutto centrato sul possesso palla, con il secondo attacco del campionato ma una marcata tendenza a non gestire il vantaggio e a subire gol: alla fine dell’anno l’Inter si fermerà al terzo posto.

Nel 61-62 la storia si ripete: l’Inter gioca bene, ma finisce seconda, dietro il Milan di un allenatore alla sua prima stagione con i rossoneri, Nereo Rocco. Proprio da Rocco e dal suo calcio speculativo arriva l’ispirazione per il Mago Herrera, che si fa più pragmatico, sposta Armando Picchi nel ruolo di libero e costruisce quello che è praticamente un 5-3-2 basato su una fortissima etica del lavoro.

Mazzola diventa il tuttofare offensivo, Suarez il regista che comanda la squadra, le fasce assumono un valore decisivo con Jair e Facchetti: l’Inter diventa una squadra ingiocabile, che non parcheggia l’autobus davanti alla porta, come si dice oggi, ma che fa della fluidità, dell’applicazione difensiva, della compattezza, una ragione di vita (sportiva).

È così, grazie a una delle squadre italiane più vincenti di sempre, che il Catenaccio diventa una sorta di marchio di fabbrica del calcio nazionale. Nel tempo, anche recentemente, grandi vittorie saranno costruite su questo sistema di gioco, come ad esempio il successo della Grecia a Euro 2004, o il triplete di Mourinho all’Inter del 2009-2010: una rappresentazione moderna di un calcio fatto di applicazione, solidarietà e concetti di fluidità difensiva radicali.

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