Lo sport femminile in Arabia Saudita: molti soldi, molte ombre
Un report dell’ONG internazionale Human Rights Watch, pubblicato pochi mesi fa, riaccende i riflettori sulle condizioni della popolazione femminile dell’Arabia Saudita e pone seri dubbi di moralità. Ecco i dettagli.
Donne e sport in Arabia Saudita
La Supercoppa Italiana e quella Spagnola. La rinnovata Parigi-Dakar. Il Gran Premio di Formula 1 di Jeddah. La costruzione di un campionato di calcio pieno di stelle, da Cristiano Ronaldo a Benzema, sino a vecchie conoscenze della serie a come Koulibaly e Milinkovic -Savic.
E poi, ancora, il reclutamento di grandi personaggi come il golfista Jon Rahm e il tennista Rafa Nadal, l’acquisto del Newcastle nella Premier League inglese, i tornei di tennis ATP e WTA e poi la ciliegina sulla torta: il Mondiale di calcio maschile del 2034. Sono, questi, tutti investimenti del fondo PIF, il fondo con il quale l’Arabia Saudita ha rivoluzionato, sta rivoluzionando, il mondo dello sport, puntando a diventarne il protagonista globale.
All’interno di questi investimenti c’è anche spazio, com’è inevitabile, per lo sport femminile, con la fondazione di un campionato di calcio ufficiale e di una nazionale, in un paese che fino al 2006 non aveva mai avuto un club calcistico femminile e che anche quando lo ha finalmente avuto, con la fondazione del King’s United di Jeddah, ha comunque continuato a far allenare le sue tesserate in totale isolamento, senza la possibilità di giocare alcuna partita.Per parlare di sport femminile in Arabia Saudita, e di sport in generale nel paese arabo, è insomma fondamentale avere prima di tutto in mente il contesto, capire di cosa stiamo parlando. Non si può dimenticare, ad esempio, che in Arabia Saudita le donne sono state ammesse come spettatrici negli stadi soltanto nel 2018.
Non è allora sorprendente scoprire che la nazionale di calcio femminile dell’Arabia Saudita esiste soltanto dal 2021. Di fatto, sino al 2013 non c’era, in tutto il paese, nessuna struttura nella quale bambine, ragazze e donne saudite fossero autorizzate a fare attività sportiva.
Nel 2013, finalmente, venne aperta a Jeddah una sorta di polistruttura nella quale le donne saudite potevano misurarsi con la ginnastica, le arti marziali, lo yoga, il fitness, il tutto in un regno nel quale, è importante ricordarlo, le ragazzine possono fare attività sportiva solo nelle scuole private, mentre l’educazione fisica resta bandita per le studentesse in tutte le scuole pubbliche del paese.
Ancora, la squadra olimpica saudita portò delle rappresentanti femminili ai Giochi per la prima volta solo nel 2012, a Londra, dopo fortissime pressione da parte del Comitato Olimpico Internazionale e la minaccia di escludere l’intera delegazione dell’Arabia Saudita dalla competizione.
Nonostante questo, fino a Tokyo 2020, i nomi delle donne saudite ai Giochi non venivano menzionati sui documenti ufficiale del Comitato Olimpico Saudita e alle Olimpiadi di Parigi della scorsa estate le donne arrivate in Francia a rappresentare l’Arabia Saudita erano appena due.
Arabia Saudita, il paese delle contraddizioni
L’Arabia Saudita, sulla carta, non sarebbe un paese naturalmente vocato allo sport. Pochissime le aree verdi, ancora meno gli impianti sportivi, tutto ciò che si è fatto negli ultimi anni nasce dalla volontà di inculcare dal basso nella popolazione la voglia di sport, sia in termini di partecipazione attiva che di semplice visione.
Le donne, in questo progetto, sono importanti, ma lo sono soprattutto come elemento di facciata verso l’esterno. Non si può infatti dimenticare che quando si parla di Arabia Saudita, si parla di un paese che nel 2024 ha condannato a morte, secondo quando pubblicato dall’agenzia di stampa internazionale AFP, 198 persone e che continua a limitare sensibilmente i diritti delle donne.
Le donne saudite devono ancora oggi ottenere il permesso di un parente maschio (il padre, il marito, il fratello, in alcuni casi addirittura un figlio) per poter decidere di molti aspetti della loro vita, come il matrimonio, i viaggi, l’accesso all’assistenza sanitaria o all’istruzione: si tratta di momenti, azioni, possibilità, cui una ragazza nata in Arabia Saudita non può avere accesso autonomamente, ma per le quali deve richiedere il permesso, con un documento firmato, di un uomo.
Le carceri, inoltre, come dichiarato recentemente dalla direttrice di Human Rights Watch, Minky Worden, sono piene di donne saudite che hanno come unica colpa quella di aver magari pubblicato un post su Facebook nel quale chiedevano più diritti.
Da una parte, insomma, ci sono i miliardi investiti dal Fondo PIF che portano in dote, inevitabilmente, anche una buona dose di riforme senza dubbio positive per le donne e per lo sport femminile in Arabia Saudita, specie se considerate le condizioni di partenza (ricordiamo, nuovamente, che fino a meno di dieci anni fa le donne era del tutto escluse da qualsiasi partecipazione, anche solo come spettatrici, al mondo sportivo).
Dall’altra, resta però una situazione drammaticamente sbilanciata in termini di libertà e uguaglianza fra uomini e donne in Arabia Saudita. Anche per questo ci si auspicherebbe più coscienza politica da parte degli sportivi e delle sportive, la stessa mostrata da alcune tenniste (Coco Gauff ad esempio, oltre alle ex Navratilova e Evert) in occasione delle WTA Final 2024 o dalle 100 calciatrici che si sono ribellate al ricchissimo accordo di sponsorizzazione siglato dalla Fifa con Aramco, gigante petrolifero saudita, con una coraggiosa lettera aperta.